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DR KLAUS MUELLER

Publications

UCCISI DALLA BARBARIE, SEPOLTI DAL SILENZIO? Testimonianze di sopravvissuti omosessuali (2002)

La ricerca sull’Olocausto e la cultura del ricordo nei confronti delle vittime della persecuzione nazionalsocialista si fondano su due diverse forme di memoria: da un lato la ricerca storica, la quale è sempre, attraverso il suo vincolo accademico, anche una forma della memoria collettiva; dall’altro, la testimonianza individuale degli stessi sopravvissuti, le loro testimonianze autobiografiche e le loro interviste. La varietà di pubblicazioni storiche negli ultimi anni ha mostrato che la ricerca storica sulle persecuzioni degli omosessuali da parte dei nazisti ha elaborato una base sottile ma solida, con l’aiuto della quale possono essere definiti progetti di ricerca più avanzati [1] .

DOVE SONO PERÒ LE TESTIMONIANZE DEI SOPRAVVISSUTI?
Quale ruolo svolgono nel nostro lavoro commemorativo e, insieme, che funzione svolge tale ricerca per loro [2]? Si stima che, in tutto il mondo, ci siano circa 15.000 interviste video e audio con ebrei sopravvissuti. La “Survivors of the Shoah Visual History Foundation” di Steven Spielberg ha accumulato, fino al marzo 2001, altre 51.478 nuove interviste con sopravvissuti, soprattutto ebrei. Soltanto una piccola parte delle interviste deriva da colloqui con membri di altri gruppi di vittime, a cui la “Shoah Foundation” si è aperta dopo un anno dall’inizio del suo lavoro.

Il numero delle interviste con sopravvissuti omosessuali è invece basso in maniera avvilente e ciò vale come indizio della decennale indifferenza rispetto al loro destino. Quattro video-interviste di storia orale con sopravvissuti omosessuali si trovano nella collezione di storia orale dello United States Holocaust Memorial Museum di Washington, due interviste nella raccolta della “Shoah Foundation”. Queste ultime coincidono comunque con le testimonianze dello U. S. Holocaust Memorial Museum [3] . Né il “Fortrenoff Video Archive for Holocaust Testimonies of Yale University”, né la collezione di storia orale del Museo Yad Vashem di Gerusalemme dispongono di interviste con sopravvissuti omosessuali. Un simile disinteresse contraddistingue anche le istituzioni che intervistano, in Germania, testimoni di quel tempo.

Non casualmente, sono stati allora presentati in anni recenti degli importanti lavori nell’ambito del cinema documentario indipendente, che ovviamente possono compensare soltanto parzialmente le carenze delle istituzioni di ricerca e dei musei e che però hanno facilitato un’ampia discussione pubblica.

Wir hatten ein großes ‘A’ am Bein, di Joseph Weishaupt ed Elke Jeanrond (We were marked with a big ‘A’, la versione inglese sottotitolata, è stata da me curata nel 1993 per lo “U. S. Holocaust Memorial Museum”), conteneva già nel 1991 tre interviste con sopravvissuti omosessuali e gettava uno sguardo d’assieme sul tema.

Più recenti sono i film documentari da me promossi e curati per la parte storica: Paragraph 175, in cui ho intervistato cinque sopravvissuti omosessuali [4] , e …but I was a girl (The Life of Frieda Belinfante, OLANDA, 1999), che si basa su una mia intervista con Frieda Belinfante, una esponente lesbica della Resistenza in Olanda [5]. Il mio documentario Just happy the way I am si occupa di questo tema con problematiche di tipo pedagogico [6] . In primo luogo Paragraph 175 – che con le “prime” al Sundance e al Berlin Film Festival, e i numerosi premi ebbe un’ampia eco nei media – diede al grande pubblico internazione la possibilità di seguire per la prima volta i destini individuali dei perseguitati omosessuali e di ascoltare le testimonianze dei sopravvissuti.

Internet, in quanto forma di comunicazione relativamente nuova, a partire dalla fine degli anni ’90 ha sviluppato un importante luogo di discussione, che però ha fornito finora soprattutto informazioni secondarie da fonti già pubblicate. La rassegna on-line, da me realizzata per lo U. S. Holocaust Memorial Museum, “Do you remember when”, è una delle poche fonti primarie che non deriva da esposizioni on-site o da pubblicazioni. Nella rassegna viene tematizzato il destino individuale di due sopravvissuti ebrei omosessuali.

Che sia filmata oppure on-line, la ricostruzione del destino delle vittime omosessuali e dei sopravvissuti è marginale e può avere come conseguenza soltanto quella di facilitare una integrazione di questo tema, sicuramente a lungo termine, negli studi sull’Olocausto e sull’educazione.

Nelle testimonianze letterarie si ha un’immagine simile. La loro molteplicità, da parte di sopravvissuti ebrei, rende possibile un’immagine assai differenziata della persecuzione individuale e collettiva. Pensiamoci un attimo. Saremmo capaci di ricostruire la persecuzione nei confronti degli ebrei europei senza le testimonianze di Elie Wiesel, Viktor Klemperer, Anne Frank o Primo Levi? Saremmo in grado di formare la memoria e il ricordo della persecuzione degli ebrei senza le testimonianze, i ricordi e le riflessioni dei sopravvissuti, senza le loro voci? Ciò è difficilmente immaginabile.

La situazione con la quale ci dobbiamo confrontare, nella ricostruzione della persecuzione nei riguardi degli omosessuali, è però questa. Conosciamo finora soltanto due testimonianze letterarie di sopravvissuti omosessuali: Die Männer mit den rosa Winkel di Heinz Heger (1972) e Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel di Pierre Seel (1994).

Un piccolo gruppo (meno di una quindicina) di documenti biografici, per la maggior parte in forma anonima, sono stati pubblicati da Lutz van Dijk (1991 e 1992) e Andreas Sternweiler (1993 e 1994); frammenti di intervista con sopravvissuti omosessuali, sei testimonianze anche in questo caso anonime, sono riportate in un volume di Hans-Georg Stümke e Rudi Finkler (1981). Nel confronto, si tratta di modesto numero di testimonianze storiche [7] .

Parlare delle esperienze dei sopravvissuti omosessuali vuol dire quindi parlare del loro silenzio. Soltanto all’interno di una ricostruzione di tale silenzio, imposto, potranno essere compresi coloro che malgrado tutto non hanno fornito testimonianza.

Una analisi delle “testimonianze dei sopravvissuti omosessuali” (mi limito in ciò che segue alle testimonianze scritte dagli stessi sopravvissuti) presenta tre false premesse, che vorrei problematizzare. In primo luogo l’ipotesi che possiamo trattare il destino degli uomini con il triangolo rosa e le loro esperienze dopo il 1945 in maniera a-problematica, come qualcosa di collettivo. Fatemi determinare il punto di partenza della mia argomentazione: più del 99 per cento di tutti i sopravvissuti omosessuali non ci ha raccontato la loro storia e non ce la racconterà mai. Essi restano soli con la memoria e moriranno soli con essa [8] .

Il fatto che la ricerca storica possa fornire finora soltanto una stima approssimativa del numero degli uomini internati, identificati come omosessuali, con il triangolo rosa, parla da solo.

L’ipotesi dell’esistenza di un gruppo di sopravvissuti omosessuali ignora il carattere più significativo della loro vita dopo la liberazione: il loro estremo isolamento. I sopravvissuti omosessuali si sono raramente sentiti parte di un collettivo. Il silenzio loro imposto dalle società del dopoguerra li ha atomizzati. La loro persecuzione divenne destino individuale.

Sulla seconda falsa premessa: quando li identifichiamo come gruppo di perseguitati “omosessuali”, occultiamo la complessità storica delle costruzioni dell’identità sessuale. La costruzione dell’omosessuale come sessualmente diverso in termini di identità sociale deriva dai discorsi medici e politici del xix secolo sulla degenerazione e sulla perversione: un terreno fertile per una molteplicità di identificazioni razziste e sessiste [9] .

La biologizzazione di questi pregiudizi culturali – quando si determinano gli ebrei, gli omosessuali, gli zingari, i disabili come degenerazione della natura – si rivela come un complesso causale del loro assassinio cinquanta anni dopo e può essere una spiegazione per la condotta passiva della popolazione tedesca nei confronti dell’omicidio di massa.

Un paragone per chiarire: la storia dell’antisemitismo incide, ma è soltanto una parte della storia dell’ebraismo. La storia della sessualità e della omosessualità  è soltanto in parte la storia dei comportamenti sessuali o degli atti sessuali. Essa diventa assai più efficacemente caratterizzante  rispetto a identificazioni sociali e significati di ciò che è sessuale, che vennero e vengono, attraverso la storia, proiettati su individui e gruppi.

La discussione sul nazionalsocialismo si deve confrontare con questa complessa eredità del razzismo; un razzismo diffuso attraverso il linguaggio, attraverso le categorie. Da un lato non possiamo astrarre dai gruppi sociali a cui appartiene l’individuo (omosessuale), che vengono sussunti sotto identificazioni: motivo autentico del suo o del loro internamento. È dunque problematico utilizzare in modo automatico le categorie di identificazione (ebreo, omosessuale, zingaro…), che i nazisti usarono per la divisione dei campi, negli studi sull’Olocausto. Con ciò, facciamo ordine mediante delle etichette sociali, che sono strettamente connesse con la storia del razzismo e della costruzione dell’altro. Dall’altro, queste identificazioni furono utilizzate, a partire dal XIX secolo, anche per la ricerca di una positiva autodeterminazione di omosessuali. La storia della emancipazione e repressione si sviluppava lungo questa linea di identificazione sociale (spesso determinata) e di positiva formazione dell’identità. L’etichetta “sopravvissuto omosessuale” si colloca all’interno di questa ambivalente tradizione.

Sulla terza falsa premessa: nel nostro bisogno di integrare immediatamente i sopravvissuti omosessuali in una cultura della memoria, a cui essi non partecipavano mai, li abbiamo designati come “sopravvissuti”. Con “sopravvissuto” si sono rese le esperienze individuali e sociali di coloro che sono scampati ai campi. Tuttavia c’è nel concetto anche il riconoscimento sociale e collettivo del mondo esterno: l’espressione di un serio rispetto nei riguardi del “sopravvissuto” stesso. Nel concetto di “sopravvissuto”, come oggi viene applicato, c’è il semplice e però assolutamente necessario riconoscimento del torto sociale che toccò alle vittime del nazionalsocialismo.

Gli uomini con il triangolo rosa non avevano mai fatto esperienza di questo semplice riconoscimento. Li si è esclusi da tale cultura della memoria. Furono trattati come criminali e pervertiti. La loro dignità è stata a lungo distrutta nella società tedesca del dopoguerra. Visti così, gli omosessuali, che lasciarono i campi nel 1945, non sono dei “sopravvissuti”. Essi hanno unicamente sopravvissuto.

RICOSTRUZIONE DELLA SITUAZIONE DEL DOPOGUERRA
Per comprendere sia il silenzio che il valore delle poche testimonianze dei perseguitati omosessuali da parte del regime nazista, vorrei innanzitutto delineare la situazione politica e giuridica dell’allora prigioniero omosessuale: gli ambiti in cui possono essere intese le poche testimonianze dei sopravvissuti. Mi limito a poche parole-chiave. La storia del dopoguerra potrà sicuramente essere dettagliatamente affrontata in altri contributi.

– Tanto agli alleati quanto alle autorità tedesche del dopoguerra la persecuzione degli omosessuali da parte dei nazionalsocialisti era ampiamente nota, sia attraverso testimonianze di altri prigionieri sia attraverso documenti nazisti.

– Né nei processi di Norimberga, né nei successivi procedimenti giudiziari contro i nazisti venne punita giuridicamente la persecuzione nei confronti degli omosessuali. La forte ripresa della omofobia, alla fine degli anni ’40, in Europa e negli Stati Uniti (McCarthy) impediva l’analisi di questa forma specifica di ideologia nazionalsocialista e di prassi persecutoria. Così fu anche impedita dalle molte linee di continuità che, certamente non soltanto qui ma soprattutto rispetto a questo tema, si concretizzarono prima e dopo il 1945. L’antisemitismo dichiarato pubblicamente divenne un tabù dopo il 1945; ma l’avversione nei confronti degli omosessuali non fu indagata. L’“omosessuale come diverso” divenne simbolo della diversità e della persecuzione e come figura di confine venne utilizzata da quasi tutti i gruppi sociali come impronta politica nella loro pretesa di rispettabilità. Anche le forze liberali nella Repubblica Federale Tedesca evitarono a lungo di assumere la questione omosessuale come questione politica.

– La revisione nazionalsocialista del Paragrafo 175, nel 1935,  venne adottata dagli alleati e successivamente dalle autorità federali come diritto vigente. La Corte Federale Tedesca condannò, nel 1957, questa ripresa di una legge nazionalsocialista con considerazioni di “costume” e di politica demografica che in parte si ricollegavano strettamente alle concezioni nazionalsocialiste.

– Il primo movimento tedesco di lesbiche e omosessuali, sotto la guida di Magnus Hirschfeld, fu distrutto dai nazisti. Negli anni ’50 e ’60 ci furono dei tentativi di collegamento, però falliti. Restarono sullo sfondo gruppi di omosessuali privi di influenza.

– Il secondo movimento tedesco di lesbiche e omosessuali non ha né potuto né tentato con risolutezza di prendere contatto con i sopravvissuti. In particolare, la radicalità politica degli anni ’70 e ’80 è a esso estranea e risulta strana ai sopravvissuti.

– Le vittime omosessuali vennero e vengono escluse dall’indennizzo e dalla riparazione di guerra e sono considerate con precedenti penali. Fino a oggi, l’indennizzo per gli omosessuali perseguitati non c’è stato. Anche il riconoscimento dell’ingiustizia della loro persecuzione da parte dei nazisti, realizzato da parte del Parlamento Tedesco, non cambia niente rispetto al mancato risarcimento economico e alla revisione giuridica del giudizio della Corte Federale del 1957. La deriva del confronto politico nelle dichiarazioni e nei gesti simbolici impedisce un chiarimento economico e giuridico.

– Le autorità penali federali ricominciarono con la persecuzione nei confronti degli omosessuali e utilizzarono il Paragrafo 175, inasprito dai nazisti nel 1935, come fondamento di diritto. Il dopoguerra tedesco non è soltanto caratterizzato dalla mancata rielaborazione storica, ma anche dalla continuità della persecuzione degli omosessuali. Una rielaborazione giuridica ed economica della persecuzione deve necessariamente mettere a tema la continuità giuridica, dopo il 1945, fino al 1969.

– La ricerca storica e la cultura della memoria nei riguardi delle vittime del nazionalsocialismo hanno taciuto per decenni la repressione degli omosessuali operata dai nazisti, l’hanno negata e hanno contribuito al silenzio nefasto nei confronti delle vittime e dei sopravvissuti. All’inizio degli anni ’90, questa prassi fu interrotta dallo U. S. Holocaust Memorial Museum e ciò contribuì in modo essenziale alla progressiva integrazione del tema anche nei luoghi di commemorazione e nei musei; una serie di luoghi commemorativi tedeschi ha organizzato nel frattempo delle rassegne o ha costituito, come il Sachsenhausen, una rassegna speciale in collaborazione con il Museo degli Omosessuali [10] .

– Unicamente con il lavoro, in prevalenza, delle storiche lesbiche e degli storici omosessuali fu analizzata la – differente – persecuzione delle lesbiche e degli omosessuali. Ciò accade all’inizio degli anni ’80 con Rüdiger Lautmann, Hans-Georg Stümke e Rudi Finkler, Richard Plant e, dalla fine dello stesso decennio, con i lavori di Günter Grau, Burckhard Jellonek, Lutz van Dijk, Claudia Schoppmann e altri.

– Dalla fine degli anni ’90 cresce la discussione pubblica sulla pluridecennale negazione della persecuzione nei confronti degli omosessuali; caratterizzata in maniera determinante dal lavoro dello U. S. Holocaust Memorial Museum e dal film documentario Paragraph 175, coronato dal successo, ma anche mediante il lavoro della “ Pink Triangle Coalition ”, dall’iniziativa di ricordo e di ammonimento a favore delle vittime omosessuali, dalle rassegne dello Schwulen Museum e dalle ricerche della “Magnus Hirschfeld Gesellschaft”[11] .

IL RISCHIO DEL RICORDO
Al cospetto della continuità della persecuzione dopo il 1945, e della criminalizzazione giuridica degli omosessuali, non può sorprendere che le testimonianze dei sopravvissuti omosessuali potessero essere compromettenti; infatti potevano presentarsi potenzialmente come materiali di una futura persecuzione.

Omosessuali e lesbiche vivevano, tra il 1945 e la metà degli anni ’60, in clandestinità. I contatti avvenivano sempre con grande cautela. Nel 1969, in un articolo pilota sull’abolizione del Paragrafo 175, lo “Spiegel” riferiva, circa le condizioni di vita degli omosessuali in una cittadina della Germania Occidentale: “Indirizzi e numeri telefonici di amici imparati a memoria. Le lettere vengono immediatamente distrutte”. “Se c’è un furto oppure ci succede qualcosa, la polizia viene a casa – e non c’è nessuno che lo pone in rilievo” [12] . La dissimulazione coatta del periodo nazista continuò quasi ininterrottamente dopo il 1945. L’anonimato era un mezzo indispensabile per poter vivere.

Al di là del triangolo rosa come simbolo pluriennale della comunità gay e lesbica, sappiamo molto poco sul destino individuale degli uomini che lo portarono. L’invenzione nazista del triangolo rosa divenne il simbolo internazionale dell’“orgoglio gay e lesbico”, visto che non siamo perseguitati dai ricordi individuali e concreti di coloro che furono costretti a portarlo. Il nostro ricordo è impersonale [13] .

Proprio per questo sono decisive le due testimonianze di omosessuali perseguitati, in vista di una comprensione storica della persecuzione degli omosessuali da parte del nazismo, che non può essere ricostruita soltanto attraverso una analisi delle fonti dei responsabili. Gli atti degli archivi della Gestapo o delle SS, atti giudiziari o elenchi provenienti dai campi di concentramento, registrano sempre la disumanizzazione dei perseguitati e non è quindi un caso che le ricerche si limitino finora ad una ricostruzione delle persecuzioni di massa nei confronti degli omosessuali sulla base delle fonti naziste, gettando appena uno sguardo sulle conseguenze di tale persecuzione a livello di destini e percorsi di vita individuali. Le testimonianze di Heinz Heger e Pierre Seel sono fonti primarie per una nuova ricerca sul nazionalsocialismo, che non voglia e debba appoggiarsi unicamente alle fonti dei responsabili, e per una individualizzazione del nostro ricordare: la persecuzione degli omosessuali da parte dei nazionalsocialisti distruggeva le strutture collettive e però concerneva i singoli esseri umani.

LA TESTIMONIANZA DI HEINZ HEGER
Nel 1972 venne pubblicato, da una piccola casa editrice tedesca, Die Männer mit den rosa Winkel, il cui autore si firmava Heinz Heger [14] . Il libro descrive le esperienze di un ventiduenne studente viennese, che fu arrestato nel 1939 a causa di una infrazione rispetto al Paragrafo 175, venendo condannato a sei mesi di prigione e poi deportato in un campo come “fermato per ragioni di pubblica sicurezza”. Nel gennaio del 1940 fu deportato a Sachsenhausen e costretto a lavorare nella fabbrica di trattamento delle scorie. Nel maggio del 1940 fu trasferito al campo di concentramento di Flossenbuerg, dove venne messo, con altri prigionieri con il triangolo rosa, in un blocco speciale denominato 175. Durante il trasferimento finale da Flossenbuerg a Dachau, nell’aprile del 1945, fu liberato dalle truppe americane.

La sua testimonianza divenne il simbolo della lotta per il riconoscimento della persecuzione degli omosessuali da parte dei nazisti. La storia nel libro definisce insieme anche le specifiche difficoltà di questa lotta:

– Il manoscritto fu terminato nel 1967-’68, ma trovò un editore soltanto nel 1972. Nei primi tempi vendette molto poco e diventò invece un grande successo nei tardi anni ’70 e ’80. La traduzione in diverse lingue rifletteva poi il crescente bisogno della comunità gay e lesbica di rendersi conto della propria storia.

– “Heinz Heger” era uno pseudonimo. L’autore perseverò nel suo anonimato. La sua identità restò ignota fino a poco dopo la sua morte. La lunga anonimità dell’autore intaccò la credibilità della sua testimonianza. Nel corso degli anni, il suo valore come documento storico fu messo in dubbio in maniera crescente. Nel marzo 1994, “Heinz Heger” morì, senza essere mai stato riconosciuto come vittima del regime nazista. Il successo del suo libro gli era noto in modo assai limitato.

– Ciò durò per ventidue anni, fino a quando la sua testimonianza rimase l’unica a noi nota, finché Pierre Seel pubblicò le sue memorie.

Subito dopo la morte di “Heinz Heger”, Kurt Krickler, membro dell’associazione “Homosexuellen Initiative” in Austria, mi fornì il contatto con il partner di Heger, Wilhelm Kröpfl, dal quale seppi il vero nome dello stesso Heger, Josef Kohout, e la storia del libro. Soltanto la ricostruzione della sua genesi ed infine la possibilità di verificare le indicazioni di Kohout sulla base dei documenti del campo di Flossenbuerg e di altri documenti privati, permise di determinarne l’autenticità storica.

La testimonianza di Kohout si concretizzò nel 1967-’68, con la collaborazione di un amico. “Heinz Heger” era di fatto – così si potrebbe dire –un doppio pseudonimo.

“Quindi è arrivato il 1967-’68. Un nostro conoscente, che a sua volta conosceva Josi dal 1936,  mi chiese se Josi avesse avuto interesse a farci incontrare con un’altra persona per raccontargli qualcosa sul periodo in cui era stato nel campo di concentramento, dato che voleva scrivere un libro sugli omosessuali internati. Josi mi chiese allora sinteticamente: “Devo? ” La mia risposta fu: “Se ti fa piacere, certamente, tu hai sempre voluto che qualcosa di scritto rimanesse fissato”. Così conoscemmo il “signor Heinz Heger” (il signor Neumann). In questo incontro fu concordato che il signor Neumann e Josi si incontrassero ogni lunedì pomeriggio per circa due ore, per dei mesi, poiché erano entrambi occupati nel servizio esterno dell’ufficio di una azienda di cui curavano le proprietà e qui, al lunedì, Josi passava il mezzogiorno in un piccolo “caffè della chiacchiera”. Così si realizzò, pensata come esperienza comune degli omosessuali nei campi di concentramento, la storia di Josi nel campo. Dopo che Josi fu pronto, nel 1967-’68, con i suoi racconti, allora disse, molto, molto sollevato: “Finito”” [15] .

La testimonianza di Kohout fu un tentativo tardivo di essere riconosciuto come vittima. Nel 1946, Josef Kohout aveva richiesto l’indennizzo. Venne però informato da uno dei suoi compagni del periodo di prigionia – membro del “Komitees der ehemaligen Gefangenen von Flossenbürg” (“Comitato degli ex prigionieri di Flossenbürg”), decisivo per le domande di indennizzo – che a lui, che aveva portato il triangolo rosa, non spettava niente. I suoi sei mesi di pena detentiva furono così cancellati, su sua istanza, dalla pratica di polizia che lo riguardava. E per gli anni nei campi le autorità austriache attestarono la loro non competenza. Quando Kohout andò in pensione, gli furono tolti i sei anni di Sachsenhausen e Flossenbürg – a differenza del calcolo pensionistico fatto per le prime cariche all’interno dei campi. Passarono sette anni prima che il Ministero Sociale facesse la prima – e a lungo unica – eccezione, ricalcolando la sua pensione. La sua richiesta di indennizzo venne comunque respinta, dato che egli non era “vittima dell’ingiustizia nazionalsocialista”.

La testimonianza di Kohout viene determinata da due condizioni storiche:

1. La mancanza di ricerca storica in quest’ambito pesa enormemente sul libro. Questo non era soltanto l’unica testimonianza di un sopravvissuto omosessuale, ma anche l’unica documentazione storica della persecuzione degli omosessuali da parte dei nazisti.

2. La testimonianza di Kohout è necessariamente segnata dal clima del dopoguerra e dal non riconoscimento della persecuzione nazista degli omosessuali. Il suo libro cerca argomenti con l’aiuto dei quali si possa contestare questo mancato riconoscimento. Memorie personali, ricerca storica, discorso politico: la testimonianza di Kohout è determinata dalla separazione tra queste tre condotte di scrittura e dalla sua posizione all’interno di un contesto pubblico avverso.

UNA BREVE DESCRIZIONE
Diverse prospettive narrative determinano il testo: I. la sua sofferenza individuale; II. la presentazione di ciò come destino tipico di un prigioniero omosessuale; III. gli appelli diretti al lettore e alla sua coscienza.

I. “Allora andò in frantumi un mondo dentro di me, il mondo dell’amicizia e dell’amore per il mio amico Fred” (p.17). Così Kohout descrive la prima reazione all’arresto. Kohout venne educato in una famiglia cattolica. Egli ricorda i suoi studi come un periodo sereno e con il suo amico Fred progettava piani per il futuro. Sua madre lo sosteneva nel suo coming-out. Questo sostegno materno contraddistingueva la sua forza di resistenza: “Che depravato e nemico del popolo ero? Avevo amato un amico, un uomo, non un minorenne, bensì un adulto di 24 anni!” (pp. 23-24).

II. Quanda parla sui lunghi anni nei campi di concentramento, Kohout utilizza spesso la forma del noi: “(…) noi, gli uomini con il triangolo rosa” (p. 33). Anche il destino di altri prigionieri non viene tralasciato. Kohout descrive le complesse relazioni tra i diversi gruppi di prigionieri: la rivalità tra gli internati “politici” e quelli “criminali” rispetto al ruolo del kapò; le affinità dei brutali comportamenti delle SS nei confronti degli ebrei e degli omosessuali; il rifiuto dei Testimoni di Geova di frequentare il bordello del campo; l’uccisione di centinaia di prigionieri di guerra russi.

III. Qualche volta con domande dirette, Heger si rivolge al lettore, offrendogli simpatia e giudizi morali: “(…) ma perché rimaniamo noi omosessuali così di fronte al disumano, perché siamo ancora perseguitati e imprigionati dai tribunali come ai tempi di Hitler?” (p.169).

In ogni modo la sua storia è – proprio perché è la storia di un sopravvissuto – la storia di una minoranza di prigionieri omosessuali. Quando Kohout descrive le strategie di sopravvivenza, egli ricade nella forma dell’io. Il suo sopravvivere non si basa soltanto su una condotta spirituale (“Ero ossessionato da un pensiero: voglio vivere! Voglio sopravvivere!”, p. 45), ma anche sullo scambio di favori sessuali per l’ottenimento della protezione dei kapò.

“Per due giorni scampai, come per miracolo, alla pioggia delle pallottole del tiro di addestramento, dato che un kapò, un ‘verde’, mi fece l’offerta di assegnarmi unicamente allo spalamento della terra sulle carriole nel caso che volessi diventare, per il suo piacere, il suo amico. Non sarei così più rimasto sul terrapieno del campo di tiro, in balia delle pallottole dei tiratori delle SS. (…) Perché non avrei allora dovuto utilizzare una chance che sicuramente mi degradava, ma che mi salvava la vita?” (p. 53).

Visto che Flossenburg era completamente amministrata da kapò “criminali”, e che Kohout venne protetto da diversi di questi ultimi in cambio di favori sessuali, egli sopravvisse. La sessualità, così come egli la descriva apertamente e oggettivamente, diventò merce all’interno della gerarchia del campo. La maggior parte dei kapò utilizzava la propria posizione  per offrire protezione ai “propri giovani”, quando questi erano disponibili. Queste relazioni non erano sentite come “omosessuali”, bensì come una sorta di sessualità coatta. “Il comportamento di due ‘normali’ dello stesso sesso venne liquidato come una pratica di compensazione; se lo stesso veniva però fatto in accordo da due omosessuali, allora era una ‘porcata’, una ‘schifosa e ripugnante faccenda’” (p.78).

Naturalmente i contatti nel sistema del campo restavano molto pericolosi, sia quando venivano scoperti dalle SS sia come mezzo politico nel conflitto di potere tra prigionieri “politici” e “criminali”. “Dato che ogni colpa omosessuale, se poteva essere dimostrata, veniva punita pesantemente per entrambe le parti, allora la maggior parte aveva come conseguenza la morte” (p. 66).

Questo sistema – sfruttamento sessuale versus aumento delle possibilità di sopravvivenza – si modificò subito dopo l’introduzione, nel 1943, del bordello del campo, nel quale le prigioniere da Ravensbrück erano costrette a prostituirsi. A queste ultime era stato promesso una scarcerazione dopo un certo periodo di tempo. “Ma per loro non arrivò la libertà, bensì la liquidazione nel campo di annientamento di Auschwitz, consumate del tutto da quasi duemila “atti d’amore”, che avevano dovuto sopportare per sei mesi”.

“Già nel primo giorno, all’“apertura” del bordello, cento prigionieri marciarono alle cinque del pomeriggio verso lo speciale edificio, che era aperto per loro fino alle ventuno. E questo numero di frequentatori non è quasi mai diminuito, in nessun giorno. Se si osservavano questi prigionieri, che marciavano sorridenti e lieti in direzione del bordello, si vedeva che non c’erano soltanto uomini sempre ‘in tiro’ – come potevano essere i kapò o i capisquadra – , ma anche figure disperate, relitti umani, uomini emaciati e sfiniti, in bilico tra la vita e la morte e ridotti come se dovessero crollare morti da un momento all’altro, che però ancora volevano trarre il loro ‘piacere’ dalla ‘donne’. Un chiaro esempio che la sessualità è la pulsione più potente del corpo umano” (p.139).

La sessualità è un tabù nelle memorie dei sopravvissuti e nella ricerca sull’Olocausto. È degno di nota che Kohout descriva così chiaramente il sistema dello sfruttamento sessuale come mezzo di scambio. Attraverso le sue osservazioni, Kohout inquadra la sessualità nella sua funzione all’interno della gerarchia del campo e descrive l’utilizzo del relativo potere esercitato dai capi e dai gruppi di prigionieri in concorrenza. Il comportamento sessuale nel campo è appena un’espressione dell’orientamento sessuale: i kapò avevano contatti sia etero, sia omosessuali. I giovani erano eterosessuali o omosessuali, senza che questo giocasse un ruolo nella questione del servizio sessuale. Le donne di Ravensbrück furono costrette a prostituirsi. I pregiudizi ben documentati rispetto ai prigionieri omosessuali non avevano alcuna influenza sul fatto che i prigionieri eterosessuali intrattenevano relazioni omosessuali, giustificandolo come necessità sessuale.

Per i kapò, questa mercificazione della sessualità aveva senza dubbio una funzione sessuale. Per i “giovani”, la sessualità era una questione di sopravvivenza in un universo in cui essi avevano pochi altri mezzi. Come tutto nel campo, anche la sessualità era definita attraverso il suo valore per la lotta di sopravvivenza. Soltanto di rado la sessualità era dunque espressione di simpatia e di inclinazione.

PIERRE SEEL: LA PERDITA DELL’IDENTITÀ (MEMORIA)
Nel 1994 Pierre Seel pubblicava le sue memorie: “Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel”[16] . Egli iniziò la sua testimonianza, in partenza anonima, dopo che ebbe ascoltato, durante una lettura, un sunto del libro di Heinz Heger. Pierre Seel nacque nel 1923 a Mülhausen, una città industriale dell’Alsazia. L’Alsazia-Lorena fu annessa dalla Germania nel 1940. Nel giugno dello stesso anno i nazisti iniziarono le retate nei confronti degli “elementi socialmente indesiderati”, come mendicanti, ruffiani, omosessuali o zingari. Nel maggio del 1941, la Gestapo convocò l’allora diciottenne Pierre Seel e lo interrogò sulle sue relazioni omosessuali, sui suoi “rimorchiamenti” nelle piazze e sui suoi contatti con la resistenza. La sua incarcerazione sembra essersi basata su una lista rosa approntata dalla polizia francese. Tale lista era stata richiesta dalla Gestapo con una disposizione inviata in precedenza a tutte le stazioni di polizia [17] .

Pierre Seel venne internato per sei lunghi mesi nel campo di concentramento di Schirmeck, fino al termine del 1941. Poi, come migliaia di altri alsaziani, fu costretto a combattere, agli ordini di un ufficiale tedesco, al fronte russo. Dopo varie traversie, attraversando i Balcani, giunse a Varsavia, dove venne arrestato dalle truppe russe e successivamente liberato.

Pierre proveniva da una famiglia cattolica molto repressiva. Dopo il suo ritorno da Schirmeck, fu accettato nuovamente dalla sua famiglia alla condizione di non parlare mai dei motivi della sua incarcerazione – la sua omosessualità – e quindi del periodo nel lager.

“Il silenzio che mio padre impose rispetto alla mia omosessualità, dopo il mio ritorno in famiglia dal campo di Schirmeck, restò in vigore: nessuna confidenza da parte mia, nessuna discussione da parte loro. Tutti agivano così, come se non fosse successo niente “ (p.107). “Ritornai e restai come una figura incerta: evidentemente non avevo ancora capito che ero rimasto in vita. Gli incubi mi affliggevano di giorno e di notte, mi esercitavo al silenzio” (p.103). Il silenzio divenne un modo di vivere.

“Gli stimati borghesi omosessuali della mia città natale erano tutti ritornati. Evidentemente non avevano sofferto sotto l’occupazione. Non dicevano una parola e non davano alcuna spiegazione. Non c’era nessuna discussione pubblica su ciò che era accaduto agli omosessuali. Niente, assolutamente niente mi venne in aiuto nel mio silenzio” (p.104). Cinque anni dopo la fine della guerra, nel 1950, Pierre si sposò, nacquero tre bambini; un ultimo tentativo di vivere una vita normale. In una intervista così si spiegò:

“La pressione sociale e familiare era molto grande. Forse volevo dimostrare qualcosa a me stesso. Ma non era facile, per il semplice motivo che la mia omosessualità naturalmente non spariva affatto. Un peso ulteriore era che mia moglie sapeva della mia deportazione, ma non delle sue vere cause. Conservare un tale segreto di fronte a delle persone che ti sono vicine, è un grande onere. È difficile da sopportare” [18] .

Soltanto dopo il fallimento del suo matrimonio – non raccontava mai a sua moglie perché era stato in un campo – e un periodo di grande depressione, egli infranse quel silenzio che si era imposto. Fu in particolar modo il ricordo dell’assassinio del suo amico Jo a non abbandonarlo.

“Ancora esito a parlare della prova, che per me fu la peggior cosa, sebbene si fosse verificata nelle prime settimane della mia prigionia. Essa contribuì, più di qualsiasi altro fatto, a fare di me un’ombra silenziosa, obbediente in mezzo alle altre.

Un giorno ci fu ordinato dall’altoparlante di riunirci nella piazza d’armi. (…) Di fatto questa volta ci aspettava un esame completamente diverso, doloroso, cioè una esecuzione. Un giovane, tenuto ai lati dalle SS, fu portato nel mezzo del quadrato. Colmo di orrore, riconobbi in quel giovane Jo, il mio caro amico da quando avevo diciotto anni. Fino a quel punto non mi ero mai incontrato con lui nel campo. Era arrivato prima o dopo di me? Un paio di giorni prima della mia convocazione da parte della Gestapo non potemmo vederci. Restai impietrito dall’orrore. Avevo pregato che potesse essere scampato ai rastrellamenti, alle liste, alle umiliazioni. Ma era là, di fronte al mio sguardo impotente e i miei occhi si riempivano di lacrime. Rispetto a me non aveva consegnato nessuna busta pericolosa, non aveva strappato manifesti e non aveva neppure sottoscritto appelli. E tuttavia era stato arrestato e ora veniva condotto a morte, (…) Dagli altoparlanti fu diffusa poi musica classica, mentre gli uomini delle SS lo spogliavano. Poi gli fu messo con forza la testa dentro un secchio di latta e gli furono aizzati contro i feroci cani da guardia del campo, i pastori tedeschi. Fu morso subito al basso ventre e sulle gambe, prima di sparire dalla nostra visione. Le sue grida di dolore venivano amplificate e alterate dalla latta che gli copriva la testa. Con occhi fissi, spalancati di fronte a così tanto orrore, il volto rigato dalle lacrime, pregavo fervidamente che potesse perdere al più presto conoscenza.

Da allora mi sveglio spesso di notte urlando dal terrore. Da più di cinquant’anni quella scena ritorna davanti ai miei occhi. Non dimenticherò mai il barbaro omicidio del mio amico. Di fronte a me, al nostro sguardo. Poiché vi erano centinaia di testimoni oculari. Perché tacevamo sempre?” (pp. 51-53).

L’omicidio di Jo è il motivo centrale della testimonianza di trentacinque anni dopo. Ma il ricordo non è facile da fissare: “Dimenticare? Rimuovere? È come se avessi concentrato, nelle grinfie dei nazisti, tutta la mia volontà soltanto sul pensiero di sopravvivere e non su quello di ricordare. Mi sono rimasti da raccontare soltanto dei frammenti accidentali, il cui disordine mi rende incerto” (pp. 61-62).

“Ma così come mi capita di raccontare commosso, con tenerezza e semplicità, della vita dei miei genitori, lo stesso spontaneamente non mi riesce con il ricordo di che cosa significasse per me personalmente quel periodo. Subito ritornano le cose dolorose. È come se avessi spento il mio canto di bambino, la mia felicità, nel momento in cui conservo soltanto il ricordo di fatti angoscianti” (p. 11).

Seel descrive momenti di totale perdita d’identità, che vuol dire anche perdita della memoria: “Detto più precisamente, egli mi riconosceva, poiché allora soffrivo di un calo di memoria che mi dava molto da fare. Egli doveva convincermi di questo, che ero veramente il figlio del pasticciere Seel. Gli mostravo le mie poche foto di famiglia. Le commentava. Dato che viaggiavo senza bagaglio, mettevo così assieme un paio di brandelli della mia identità distrutta” (p. 94). Il silenzio coatto, dopo la sua liberazione, aveva intaccato la sua identità. Le annotazioni un po’ felici nelle sue “memorie” si trovano dopo che si era confidato con sua madre, poco prima della morte di quest’ultima. In ogni modo, questo riconquistato sentimento di sé fu subito perso con questa morte.

“Quando lei se ne andò, portò con sé il ricordo della mia deportazione, della mia omosessualità e dell’omicidio di Jo; in seguito si realizzò una frattura nella mia vita e la mia memoria restò sepolta con colei che mi aveva compreso, che mi avevo reso possibile il ricordare” (p.114).

La sua autoestraniazione appare come una caratteristica comune a molti sopravvissuti, tanto che la possiamo ricavare dall’intervista. Il suo ambiente distruttivo si traduce in autodistruzione: “Nel quartiere si sussurrava: ‘Quello è l’uomo che piange’. Cioè avevo messo a punto l’acquisto di generi di conforto; quando tornavo dal lavoro, senza togliermi il cappotto e con il cappello ancora sulla testa, tiravo fuori dalla busta della spesa delle bottiglie di vino rosso e bevevo fino a crollare. Ciò non aveva niente a che fare con il piacere, ma era un modo, lento e però sicuro, di farla finita” (p.135).

Ma Pierre Seel riguadagna una capacità che è andata perduta nella maggior parte dei sopravvissuti: quella di poter parlare sui ricordi dolorosi. La sua lotta aperta e le reazioni di fronte al suo coraggio lo salvano: “Mi garantivo ciò che mi infondeva sicurezza. Improvvisamente mi sentivo circondato da una nuova stima nei confronti della mia identità. Potevo nuovamente guardarmi negli occhi. Indubbiamente perché avevo da risolvere, da quel momento, un compito: imporre il riconoscimento della deportazione degli omosessuali” (p.145).

La sua esposizione pubblica acquisisce con gli anni dei chiari obiettivi politici. Ma ciò ha inizio con una battaglia per la propria identità e per la facoltà di ricordare. Pierre Seel prosegue la sua lotta negli anni ’80, con apparizioni televisive, partecipazioni a dibattiti pubblici e con una lettera al Presidente Mitterand, in cui invita a documentare i crimini nazisti contro gli omosessuali e a non tollerare più incidenti nelle occasioni commemorative, nelle quali di tanto in tanto veniva impedito di partecipare ai gruppi di omosessuali.

“Ciò che mi ferisce e mi motiva, è da fare. Cosa vuole significare? Non ci sono buoni o cattivi deportati! Venimmo tutti deportati per motivi politici, a causa della sistematica imposizione del regime nazista. Nessuno può dubitare di ciò. Oppure dobbiamo parlare del revisionismo! No, inizio ad appellarmi a tutti questi gruppi e politici: essi devono riconoscere come tale la persecuzione nei confronti degli omosessuali e condannare l’Olocausto. I crimini dei nazisti non possono restare ignorati e impuniti oppure, ancora peggio, completamente dimenticati! Coloro che sono sopravvissuti, devono testimoniare. Soltanto i sopravvissuti possono fondare il ricordo dei morti, la nostra memoria” [19] .

I suoi ricordi mirano, come quelli di Kohout, a un riconoscimento pubblico della persecuzione nazista nei confronti degli omosessuali e però si differenziano dalla testimonianza di Kohout:

– Le memorie di Seel non si limitano agli anni 1933-1945. Esse descrivono gli “anni della vergogna”, il suo dopoguerra, e terminano nel 1993.

– La sua storia – pensata come quella di Heger per rappresentare il destino generale degli omosessuali – si distingue ancora. Seel racconta la sua storia dalla prospettiva odierna e può fare affidamento sulla letteratura di ricerca. Egli non racconta soltanto a noi, ma anche a se stesso le conseguenze del silenzio sulla sua vita dopo il ’45. La sua perdita di identità nelle esperienze di Schirmeck e il decennale silenzio diventano il tema proprio dei suoi ricordi. Le sue memorie vanno fin dove può una autobiografia: racconta a partire dalla posizione di una ritrovata identità, quella del Pierre Seel di oggi, che cerca di comprendere la distruzione della sua identità. “Avevo diciotto anni, di fatto non avevo età. Il mio amico era morto, di me i nazisti avevano fatto un relitto” (p.57). Il titolo inglese dell’autobiografia, I, Pierre Seel, Deported Homosexual, è accompagnato da questo sottotitolo: A Memoir of Nazi Terror’.

VIDEO-INTERVISTE/ESPERIENZE DI INTERVISTE
Vorrei affiancare all’analisi delle due testimonianze letterarie alcune esperienze raccolte negli ultimi anni attraverso le interviste con Gad Beck, Tiemon Hofman, Stefan K., Frieda Belinfante, Karl G., Friedrich-Paul von Groszheim, Kurt von Ruffin, Karl Lange, Gorge Havas, Wilhelm Kröpfl, Richard Plant, Rolf Hirschberg, Ernst Scholem e Georg Heck. Le video-interviste con i sopravvissuti, da me fatte negli ultimi anni, sono disponibili nelle collezioni dello U. S. Holocaust Memorial Museum, della “Shoah Foundation” e nel documentario Paragraph 175.

– Il mancato riconoscimento della persecuzione nazista nei confronti degli omosessuali ha reso più difficile e in parte impossibile l’elaborazione delle esperienze di prigionia e dei campi. L’incredibile mortificazione del sopravvivere e dell’essere poi trattati come criminali dalla società del dopoguerra ha provocato in alcuni sopravvissuti delle persistenti conseguenze fisiche e psichiche. Le difficili opportunità di impiego a causa della “condanna al campo”, l’impoverimento economico dovuto al mancato risarcimento e alle pensioni ridotte degli anni del lager, contraddistinguono la situazione esterna. La profonda sofferenza personale, il completo isolamento e l’amarezza impotente di fronte alla giustificazione da parte delle autorità federali del torto da loro subito, determinano i ricordi.

– L’esperienza di vita dei sopravvissuti omosessuali è che la loro persecuzione era e rimane statualmente legittimata. Non esperiscono simpatia collettiva o protezione. È molto difficile per loro interrompere un lunghissimo silenzio.Soltanto con difficoltà i sopravvissuti acquisiscono oggi la fiducia per testimoniare a tutti le loro esperienze di vita; per raccontarci la loro storia, che per cinquant’anni dovettero penosamente nascondere, non appena qualcuno vi accennava. Soltanto di recente la situazione di vita di alcuni sopravvissuti è migliorata, quando si sono concretizzati contatti storici con individui e/o gruppi di sostegno. Tuttavia ancora oggi ci sono sempre dei momenti nelle interviste in cui i sopravvissuti si interrompono, poiché pensano che tutto ciò non interessi a nessuno.

– Le poche interviste, che ancora oggi possiamo fare, sono testimonianze decisive sulle persecuzioni individuali e collettive. Dopo quasi cinquanta anni di silenzio, il loro numero si limita, nel migliore dei casi, a 10 o 15. La descrizione storica della persecuzione nazionalsocialista nei confronti degli omosessuali può dunque essere ricompresa soltanto in modo assai ridotto mediante le interviste con i testimoni di allora. Le interviste restano eccezioni. Le video-interviste proietteranno nel futuro, in modo determinante, la nostra immagine della storia e comprenderanno parzialmente la posizione dei sopravvissuti. La quantità minima di testimonianze omosessuali perpetuerà la marginalizzazione della persecuzione degli omosessuali nella ricerca sull’Olocausto, in particolare nella documentazione sull’Olocausto per le scuole e le università. Tuttavia le interviste nel film documentario Paragraph 175 hanno contribuito negli ultimi anni ad una maggiore consapevolezza del destino individuale dei sopravvissuti.

–  I sopravvissuti omosessuali si sono presentati soltanto un’unica volta collettivamente, fuori dal loro isolamento, a livello di sfera pubblica. Cinquanta anni dopo la loro liberazione, essi hanno sottoscritto un memorandum pubblico dei sopravvissuti omosessuali, in cui essi chiedono  il riconoscimento politico dei perseguitati omosessuali come vittime del regime nazista. La dichiarazione è stata sottoscritta da otto sopravvissuti di quattro Ländern (Stati-Regione federali) ed ha avuto una qualche attenzione negli Stati Uniti attraverso un articolo del “New York Times” [20] .

DICHIARAZIONE DEI SOPRAVVISSUTI OMOSESSUALI PER IL CINQUANTENARIO DELLA LORO LIBERAZIONE
50 anni fa venimmo liberati, dalle truppe alleate, dai campi di concentramento e di prigionia nazionalsocialisti. Ma il mondo, che noi avevamo sperato, non si avverò.

Dovemmo perciò nasconderci e ci esponemmo a nuove persecuzioni. Il Paragrafo nazista 175 del 1935, anti-omosessuale, rimase valido fino al 1969; le retate non erano una rarità. Alcuni di noi – liberati dai campi – furono condannati di nuovo a lunghe pene detentive.

Sebbene alcuni sopravvissuti tentassero di sostenere fino alla Corte federale il nostro riconoscimento come perseguitati dal regime nazista, non fummo però riconosciuti come tali e venimmo esclusi dal risarcimento economico a favore delle vittime del nazionalsocialismo. E il sostegno nazionale e la solidarietà dell’opinione pubblica non esistevano per noi. Nessun nazista delle SS è mai stato ritenuto responsabile in tribunale per l’omicidio di un omosessuale. Ma i primi appartenenti alle SS ricevono oggi per il loro “lavoro” una pensione, mentre a noi non vengono riconosciuti gli anni dei campi e così non vengono calcolati per la pensione.

Oggi siamo troppo vecchi e stanchi per lottare per il riconoscimento del torto che ci è stato inflitto. Molti di noi non osano parlare di ciò. Molti di noi sono morti soltanto con ricordi colmi di tormento. Abbiamo atteso a lungo ma invano un chiaro gesto politico ed economico  del governo tedesco e della Corte federale.

La nostra persecuzione è appena menzionata oggi nelle scuole e nelle università. Anche nei musei e nei luoghi di commemorazione qualche volta non veniamo neppure nominati come gruppo perseguitato.

Oggi, cinquant’anni dopo, ci rivolgiamo alla giovane generazione e a tutti coloro che non si vogliono far guidare dall’odio e dai pregiudizi. Ci diano una mano a difenderci da una memoria della persecuzione degli omosessuali da parte dei nazisti ancor sempre incompleta e viziata da pregiudizi. Non fateci mai dimenticare, così come agli ebrei, zingari, testimoni di Geova, massoni, disabili, prigionieri di guerra russi e polacchi, omosessuali e a molti altri, i torti subiti. Fate che noi si impari dalla storia e la generazione più giovane di donne e uomini omosessuali sostenga così le ragazze e i ragazzi a condurre la loro vita, con dignità e rispetto, insieme ai loro partner, amici e famiglie. Senza memoria non c’è futuro”.

CONCLUSIONI
1. Cinquant’anni dopo la liberazione dai campi i ricordi dei sopravvissuti sono al centro della cultura della memoria. Ogni cultura viene caratterizzata anche attraverso i suoi limiti, ogni discorso anche attraverso ciò che non dice. La posizione degli uomini con il triangolo rosa, in riferimento a questa cultura della memoria, è quella di un silenzio quasi assoluto. La loro vergogna, il loro senso di colpa, la continuità della loro persecuzione, il loro isolamento e il loro silenzio su tutto ciò: questa è la loro storia.

2. Joseph Kohout e Pierre Seel ci rendono possibile il gettare degli sguardi non ordinari sui motivi di tale silenzio e sulle conseguenze che quest’ultimo aveva su di loro. Entrambe le testimonianze sono scritte per acquisire nuovamente una identità. Entrambi scrivono contro il mancato riconoscimento della persecuzione. In entrambe le famiglie il periodo del campo risultava un grande tabù. Ma le loro esperienze del campo si distinguono in maniera notevole. Kohout sopravvive sulla base di un sistema di sfruttamento sessuale in cambio della protezione. Seel non ricorda nessuna attività sessuale a Schirmeck: “In quel luogo non c’era posto per pensare a desideri. Una silhouette non ha né sogni né sessualità” (p. 47). Kohout aveva una famiglia molto protettiva, Seel – rispetto alla sua omosessualità – un retroterra familiare avverso. Le loro testimonianze rendono possibile uno sguardo sulle esperienze dei sopravvissuti omosessuali, sarebbe però enfatico designare le loro storie come storia dei sopravvissuti omosessuali. Le loro storie sono l’eccezione alla regola del silenzio.

3. Il loro silenzio dura non soltanto per il periodo della persecuzione, ma anche dopo il 1945. Il Governo federale fino ad oggi non ha riconosciuto gli uomini con il triangolo rosa come vittime del regime nazista e con ciò contribuisce notevolmente all’isolamento dei perseguitati omosessuali. Il giudizio della Corte federale del 1957 è ancor sempre valido. Alla cultura politica in Germania, prima all’Ovest e all’Est, ora nella riunificazione, manca proprio una coscienza storica delle persecuzioni degli omosessuali da parte dei nazisti, così come è assente una consapevolezza della propria colpa rispetto alla continuazione della criminalizzazione e discriminazione dopo il 1945. La cultura tedesca della memoria nei confronti delle vittime del nazionalsocialismo è ancor sempre caratterizzata da una “gerarchia delle vittime”.

4. Una inchiesta condotta nel 1993 dal Comitato ebraico-americano ha accertato che soltanto la metà degli adulti in Gran Bretagna e un quarto di quelli statunitensi erano a conoscenza che gli omosessuali furono vittime del regime nazista. La cultura della memoria nei riguardi delle vittime del nazismo e la ricerca storica hanno rinunciato per molto tempo a guardare agli uomini con il triangolo rosa. “Fuori da qui, pervertiti!”, così urlò un disturbatore alla prima funzione commemorativa Memorial Museum Yad Vashem di Gerusalemme, il 30 maggio 1994: e questo è soltanto uno dei molti incidenti durante le numerose funzioni commemorative. La partecipazione di gruppi omosessuali fu spesso impedita da violenze poliziesche. La cultura della memoria rispetto alle vittime del regime nazista è aperta oppure omofobica o segnata da pregiudizi così come la cultura generale da cui proviene. La memoria delle vittime omosessuali e lesbiche del regime nazista era ed è ancora oggi determinata da un clima di pregiudizi e conflitti che rende difficile sviluppare forme appropriate di memoria. La ricerca sull’Olocausto si è affermata e istituzionalizzata come ambito della ricerca storica e in tale ambito – le sue opere-standard, le sue enciclopedie, le sue documentazioni, i suoi archivi, le sue raccolte di interviste di storia orale – la persecuzione degli omosessuali da parte dei nazisti è poco più che marginale e così resterà.

5. Sebbene il triangolo rosa sia da decenni il simbolo della comunità gay e lesbica, sappiamo molto poco sul destino individuale degli uomini con tale triangolo. La trovata nazista del triangolo rosa è diventata il simbolo internazionale dell’“orgoglio gay e lesbico”, dato che non siamo perseguitati da ricordi individuali e concreti di coloro che furono costretti a portarlo. La nostra memoria è impersonale. Se qualcosa viene quindi mutato dalle testimonianze di Kohout e di Seel, ciò è proprio il carattere anonimo della nostra memoria storica.

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NOTES
[1] Molti lavori storici sulla persecuzione degli omosessuali da parte del nazionalsocialismo sono apparsi negli ultimi anni. Cfr.: J. Boisson, 1988; B. Jellonek, 1990; M. Berenbaum (ed), 1990; C. Kranich, Kaminski M. (hgb), 1990; M. Consoli, 1991; C. Schoppmann, 1991; C. Schoppmann (ed), 1991; I. Kokula, U. Böhmer, 1991; C. Limpricht, J. Müller, N. Oxenius (hgb), 1991; W. Röll, 1991; Justizbehoerde Hamburg (hgb), 1992; R. Hoffschildt, 1992; G. J. Giles, 1992; G. Grau, 1993; D. A. Hackett (ed.), 1995; P. Koenders, 1996; C. Schoppmann, 1996; F. Sparing, 1998; R. Hoffschildt, 1999; KZ-Gedenkstaette Neuengamme (hgb), 1999; Heinrich-Böll-Stiftung (hgb), 1999. I primi lavori sul tema sono stati: R. Lautmann, W. Grikschat, E. Schmidt, 1977; H.-G. Stümke, R. Finkler, 1981; R. Plant, 1986. Una bibliografia sulla letteratura secondaria di lingua inglese, messa a punto da Gerard Koskovich, è rintracciale sulla pagina web.

[2]La redazione di questo mio contributo si basa sull’intervento che ho svolto il 20 maggio 1996 all’Università di Beersheva, in Israele, nell’ambito della rassegna: “Belated or timely memories: the last phase of survivor literature”. Ringrazio espressamente lo U. S. Holocaust Memorial Museum per il pluriennale sostegno di cui ho usufruito nella mia funzione di ricercatore nel campo della persecuzione degli omosessuali da parte del nazionalsocialismo.

[3] Fino al luglio 2001 ho condotto tre interviste con sopravvissuti omosessuali – da Polonia, Olanda e Germania – per il Dipartimento di Storia Orale dello U. S. Holocaust Memorial Museum, e altre due con una lesbica esponente della Resistenza e un emigrante ebreo omosessuale. Ringrazio per il particolare  sostegno la direttrice del Dipartimento, dottoressa Joan Ringelheim, e il suo assistente Chris Johnson, senza i quali queste interviste non sarebbero state possibili. La “Survivors of the Shoah Visual History Foundation” (Los Angeles) ha condotto due interviste con sopravvissuti omosessuali, grazie al lavoro determinante di Andrei Nicastro, che ha preparato anche la mia intervista per la “Shoah Foundation” con un perseguitato omosessuale polacco. Per Paragraph 175 (vedi nota 4) ho condotto numerosi colloqui e interviste con sopravvissuti.

[4] Il film si fonda su una mia idea, che avevo proposto come progetto comune ad entrambi i registi americani. Una produzione con denaro tedesco sembrava allora impossibile. Il film – finanziato senza alcuna partecipazione tedesca – ha ricevuto numerosi premi e ha molto contribuito, negli ultimi anni, alla discussione sulla persecuzione degli omosessuali da parte dei nazisti. Paragraph 175 (USA 2000; 82 minuti), regia di Rob Epstein e Jeffrey Friedman; direttore della ricerca e produttore associato: Klaus Müller. Prima americana: Sundance Film Festival, 2000. Prima europea: Berlin Film Festival, 2000. Premi della giuria: Sundance Film Festival – migliore direzione documentario; Berlin Festival – Teddy Award – miglior documentario gay; Torino Gay Festival – miglior documentario; Philadelfia Int’l Gay and Lesbian Film Festival – miglior documentario; Seattle Lesbian & Gay Film Festival – Award for Excellence. Riconoscimenti della critica: Berlin Film Festival – Fipresci Award (Fédération International de la Presse Cinématographique). Riconoscimenti del pubblico: Torino Gay Film Festival ; Milano Gay Film Festival ; Pink Apple Film Festival (Svissera) ; San Francisco International Exhibition of Gay and Lesbian Films – Best Feature ; Film MiX Brasil Festival of Sexual Diversity – miglior film ; Madrid Gay and Lesbian Film Festival – miglior Feature film.

[5] Ho effettuato l’intervista di otto ore con Frieda Belinfante – che è stata una delle prime direttrici d’orchestra della storia della musica – per lo U. S. Holocaust Memorial Museum; essa è disponibile nella raccolta delle interviste di storia orale del Museo. …but I was a girl (The life of Frieda Belinfante) (Frame Media Productions, Olanda 1999; 69 minuti), regia di Toni Boumans; assistente alla regia e intervista a Frieda Belinfante: Klaus Müller. Prima televisiva: 1999; partecipazione ai Festival di Milano, Los Angeles, Washington, Torino, San Francisco.

[6] Il documentario si confronta con la ricezione della persecuzione storica nazista degli omosessuali da parte dell’odierna generazione dei giovani omosessuali e delle giovani lesbiche. Just happy the way I am (Slovenia/Olanda 1999; 45 minuti), regia e coproduzione di Klaus Müller; coproduttore e cameraman: Miha Lobnik. Prima: film d’apertura al Slovenian Gay and Lesbian Filmfestivals, dicembre 1998. Proiezioni in Romania, Italia, Olanda, Ucraina, Polonia, Germania, Lituania, Serbia.

[7] Cfr. anche K. Müller, 1999. Andreas Sternweiler, Hans-Georg Stümke ed in particolare Lutz van Dijk sono stati  di grande aiuto in diverse fasi del mio lavoro..

[8] Furono da 10 a 15 mila gli uomini internati come omosessuali nei campi di concentramento, un numero considerato realistico dalla maggior parte degli storici. La percentuale dei morti viene stimata del 60 per cento. Meno di 15 omosessuali hanno finora infranto il silenzio fornendo testimonianza.

[9] Della costruzione della moderna identità omosessuale si occupano numerosi lavori nell’ambito dei “gay and lesbian studies”, ispirati principalmente dall’opera di Michel Foucault. Sullo specifico sviluppo tedesco dell’identità omosessuale alla fine del  XIX secolo cfr. K. Müller, 1991.

[10] Fino al termine degli anni ’80 non si trova, nelle principali rassegne e documentazioni sui campi di concentramento nazisti, nessuna indicazione sugli omosessuali come gruppo di vittime. Una partecipazione di gruppi omosessuali ai raduni negli ex campi di concentramento venne a lungo impedita; soltanto negli anni ’80, dopo anni di battaglia politica, fu loro permesso di collocarvi targhe commemorative. Il numero crescente delle targhe e delle lapidi segnala un lento cambiamento nell’opinione pubblica: si trovano a Mauthausen (1984), Neuengamme (1985), Dachau (1987) e Sachsenhausen (1992). Monumenti di carattere ammonitorio sono stati eretti ad Amsterdam (1987), Berlin/Nollendorfplatz (1989), Bologna (1990), Den Haag (1993), Frankfurt (1994) e Köln (1995).

[11] La “Iniziative – Der homosexuellen Opfern gedenken” lavora dal 1996 ad un monumento centrale in ricordo delle vittime omosessuali del nazismo e la registrazione della conferenza Der homosexuellen Opfer gedenken (Heinrich-Böll-Stiftung, 1999). La “Pink Triangle Coalition” è un’organizzazione internazionale di difesa formata da otto gruppi di omosessuali in U.S.A., Europa e Israele, che da alcuni anni rappresenta gli interessi dei sopravvissuti nei dibattiti internazionali; cfr. http://www.kmlink.net. Sul lavoro dello U. S. Holocaust Memorial museum cfr. www.ushmm.org; J. Weinraub, 1994; E. T. Linenthal, 1995: 187-189; S. Hart, 1993: 37-39, 74; D. W. Dunlap, 1995 e la conferenza del Museo sul tema: http://www.ushmm.org/research/center/april28/agenda/agenda.htm.

[12] Cfr. §175. Das Gesetz fällt – bleibt die Ächtung?, “Der Spiegel”, n.20, 1969, p. 62

[13] Cfr. anche K. Müller, 1999.

[14] Le citazioni che seguono sono tratte dalla quarta edizione tedesca (1993). Cfr. Anche la mia premessa all’edizione americana (1994).

[15] Corrispondenza Wilhelm Kröpfl-Klaus Müller, 5 aprile 1995. Ringrazio veramente di cuore il signor Kröpfl per avermi concesso il permesso di pubblicare alcuni passaggi della nostra corrispondenza, per la sua disponibilità e il suo sostegno.

[16] Le citazioni che seguono sono tratte dall’edizione tedesca (1996).

[17] Cfr. Anche le note all’edizione tedesca di Mario Kramp, in particolare la nota 12 (pp.167-168).

[18] Cfr. l’intervista con Pierre Seel: Bearing Witness, “Gay Times”, novembre 1989. Ringrazio particolarmente Hans Soetaert (Gent), Karsten Witte (Berlin) e Adam Brown (New York) per il loro aiuto nel portarea buon fine il mio contatto con Pierre Seel.

[19] Cfr. l’intervista con Pierre Seel, Le détail homo. Le témoignage et le combat d’un triangle rose, “Gay Pied”, ottobre 1988.

[20] La dichiarazione dei sopravvissuti omosessuali, sviluppatasi a partire da una mia corrispondenza con alcuni di loro, venne pubblicata il 29 maggio 1995, cinquant’anni dopo la loro liberazione. Cfr. D. W. Dunlap, 1995: A1 e B4. Fu sottoscritta da otto sopravvissuti omosessuali provenienti da quattro paesi: Polonia, Francia, Olanda e Germania.

BIOGRAPHICAL REFERENCE ARTICLE
Klaus Mueller: Uccisi dalla barbarie, sepolti dal silenzio? Testimonianze autobiografiche di sopravvissuti omosessuali. In: Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo. A cura del Circolo Pink. Verona 2002.